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Dalla parte della “lenta essiccazione”

Almeno per quanto riguarda il mondo del food (ma non limitato ad esso, sembrerebbe), si è creata una controtendenza tra i consumatori, in risposta al processo di automazione della ristorazione, giorno dopo giorno sempre più necessario per ottimizzare tempi e costi.

Si tratta della preferenza verso cibi più genuini, possibilmente locali e legati a una tradizione culinaria nazionale. Meglio ancora se provenienti da piccole aziende e filiere sostenibili.

Sì, tutto bello e condivisibile.

Tuttavia, e perdonate il mio cinismo, l’anticonsumismo è diventato un segmento di mercato così importante che anche le (solite) corporations non disdegnano di creare linee di prodotti con marchi green, con magari un bel sole nel proprio logo e una grande immagine di un contadino sorridente sulla scatola.

In ogni caso, anche se il “richiamo alla tradizione” in fatto di cibo mi lascia sempre scettico, di una cosa sono comunque convinto:

La pasta deve essere essiccata per un lungo periodo di tempo e a bassa temperatura.

Cosa che ormai fanno sempre meno aziende, dati i costi e i tempi più elevati rispetto all’essiccazione ad alta temperatura. Eppure, si tratta di un processo a ciclo lento (almeno 24 ore), con una temperatura tra i 40° e i 60°) che garantisce il mantenimento delle proprietà organolettiche delle materie prime, nonché della struttura delle proteine. Inoltre, evita l’indurimento dell’amido (che ne favorisce la digeribilità).

Quindi, se mi permettete un consiglio: cercate sempre la dicitura “essiccazione lenta” sulla confezione della pasta che acquistate.

E godetevi questa foto: Ragazzi che trasportano pasta da essiccare. Napoli, 1949. Foto di Alfred Eisenstaedt, il fotografo del “V-J Day in Times Square” e degli “Occhi d’odio” di Goebbels.

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